Un predestinato, che sin dalla più tenera età si è ritrovato a maneggiare ponti e impronte. Ma non quelli con cui si divertivano i cuoi coetanei, bensì il prodotto del lavoro di papà Salvatore e mamma Delia.
Marco Mone, classe 1988, è un odontoiatra figlio d’arte che ha cominciato presto a prendere confidenza con la materia che, qualche anno più tardi, sarebbe diventata la sua passione ed il suo lavoro.
«Da bambino, quando raggiungevo i miei genitori allo studio, giocavo con i denti e le impronte dei pazienti, che usavo tipo formine. Insomma, il mio passatempo, la mia plastilina era un po’ diversa da quella dei miei amici».
Insomma, il suo percorso di studio e, successivamente, di vita, è cominciato prestissimo. Ha mai avuto paura del dentista?
«Per me è stato impossibile averne. Avevo il dentista, anzi i dentisti in casa! Ho sentito parlare di denti ed interventi da subito e non l’ho mai reputato un argomento noioso. Ovviamente sono stato prima un paziente dei miei genitori e, ogni qualvolta eseguivano un intervento su di me, mi spiegavano in dettaglio ciò che stavano facendo. E’ lì che è nata la passione».
Quando ha capito che avrebbe seguito le orme dei suoi genitori?
«Verso la fine del liceo. Quando si comincia a pensare a cosa fare dopo la scuola, io avevo già capito che avrei voluto fare il concorso per accedere alla facoltà di medicina e odontoiatria».
Si è laureato alla Seconda Università “Vanvitelli” di Napoli nel 2013. Quando ha cominciato a esercitare la sua professione?
«Praticamente subito. A marzo ho discusso la tesi, a luglioo fatto l’esame di abilitazione e a settembre ho cominciato a lavorare. In questo sono stato avvantaggiato dall’avere entrambi i genitori dentisti. Ricordo ancora il mio primo intervento: una carie su di un paziente 40enne. E’ stato lui a mettermi a mio agio con la sua tranquillità».
Quanto è stato importante, per lei, avere entrambi i genitori dentisti?
«Molto importante. Ho avuto le spalle coperte, e senza di loro sarebbe stato sicuramente più difficile. Soprattutto dopo l’Università. Quando, a differenza di tanti miei colleghi, ho potuto scegliere il momento di dire stop alle consulenze presso altri studi e mettermi in proprio».
Come si è evoluta la sua professione negli ultimi 30 anni?
«L’innovazione, le nuove tecnologie, la ricerca hanno fatto fare passi da gigante a tutti i livelli. Pensiamo ad esempio all’endodonzia, la scienza che, nell’ambito della nostra branca, si occupa dei tessuti interni al dente, delle patologie e della cura. Un tempo, quando si sentiva parlare di devitalizzazione correva un brivido dietro la schiena. Oggi è un trattamento pressocché indolore, proprio grazie alle nuove tecniche e ai nuovi strumenti che abbiamo a disposizione. Stesso discorso si può fare anche, ad esempio, per gli impianti».
In che senso?
«Nel senso che oggi abbiamo programmi che ci consentono di ricostruire a monitor l’esatta conformazione della bocca e di studiare perfettamente il tipo di impianti da realizzare. Tra l’altro con un notevole risparmio di tempo».
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